A Tgcom24 la testimonianza shock di Laura Cosseddu: “Sembrava una forma influenzale, era una polmonite da Covid-19; prego che anche Luciano ce la faccia. Ma il mio dolore devo farlo conoscere a tutti, perché sappiano cosa significa coronavirus”
“Vedo troppa superficialità in giro, ho capito che il mio dolore e la mia angoscia devo farli conoscere a tutti, perché tutti possono ammalarsi di coronavirus, per questo dovete stare a casa“. E’ disperato l’appello che rivolge a Tgcom24 Laura Cosseddu, 44enne di Carbonia residente a Milano, ora in quarantena nella sua abitazione dopo sette giorni in isolamento all’ospedale Niguarda di Milano. “Sono stata dimessa come clinicamente guarita ma sulla cartella c’è scritto: polmonite da Covid-19; il mio compagno, invece, è in terapia intensiva e prego perché ce la faccia. Questo virus non guarda in faccia a nessuno, non sottovalutatelo. Se arriva al Sud può fare una strage”.
Innazitutto, come sta?
“Non ho sintomi, mi sto riprendendo, sono stata dimessa come clinicamente guarita, ma devo restate due settimane in isolamento a casa e attendere l’esito negativo dei prossimi due tamponi per poter stare tranquilla. E’ stata una settimana durissima e io in ospedale ero quella messa meglio; con leggera polmonite da Covid-19, sottoposta a una terapia sperimentale di antibiotici e antivirali usati per l’Hiv e la malaria. Ma anche ora l’angoscia resta, perché Luciano, il mio compagno, è in terapia intensiva, non so niente di lui, non posso vederlo, negli ospedali medici e infermieri lavorano in condizioni disumane con il terrore di ammalarsi loro stessi”.
Questa situazione l’ha vissuta da vicino all’ospedale Niguarda di Milano.
“Sì, per sette giorni, rinchiusa 24 ore, in una stanza da sola, senza tv, con solo il telefono per poter sentire pochi amici, con infermieri e medici che ti parlano attraverso un interfono; ogni volta che devono entrare devono indossare una tuta da marziani, dove sudano tutto quello che possono, perché da quella tuta non deve passare nulla e se sudano gli occhi non possono toccarsi. Indossano due paia di guanti e ti chiedono scusa se al momento del prelievo non riescono a trovare la vena e ti fanno male. E, poi, ogni volta che escono dalla tua camera, vanno in una stanza filtro per disinfettarsi, prima di raggiungere il corridoio e ricominciare il giro degli altri pazienti, dopo essersi rivestiti. Queste sono le loro 12 ore in corsia, con la paura costante di ammalarsi. Li ho visti, sono stressati psicologicamente. Non è possibile da spiegare, perché non sono solo stanchi e impotenti davanti a chi non ce la fa. Hanno paura di ammalarsi anche loro. Per questo sono i nostri eroi. Nessuno ha idea di cosa c’è ora negli ospedali”.
Del suo compagno in terapia intensiva che notizie ha?
“Nessuna. Prego solo perché ce la faccia. Vivo nel dolore e nell’angoscia, ma non voglio tenerli per me, voglio farli conoscere a tutti e non per essere compatita. Ma perché tutti devono sapere che questo virus non guarda in faccia a nessuno, non lo sottovalutate, non siate incoscienti. State a casa, blindate in casa gli anziani, non fateli uscire a fare la passeggiata. Quindici giorni a casa possono salvare tutta l’Italia“:
Come vi siete ammalati?
“Non lo sappiamo, ho subito il terzo grado dalla Asl per rintracciare tutti i nostri contatti degli ultimi giorni. Facciamo una vita normale, usiamo la metropolitana per andare a lavorare, andiamo a ballare il tango argentino. Poi dal 24 febbraio abbiamo iniziato ad accusare sintomi che sembravano influenzali; io poca febbre ma forti mal di testa; lui febbre alta e poca tosse. Nel giro di pochi giorni la situazione è peggiorata; io avevo perso olfatto e gusto; il mio compagno aveva sempre più febbre alta nonostante l’antibiotico. Con l’ambulanza l’hanno portato in rianimazione. Anch’io sono stata ricoverata, ma in osservazione nel reparto malattie infettive. Era il 2 marzo. E stare in terapia intensiva vuol dire essere in coma farmacologico, intubati per essere aiutati a respirare, con il sangue che viene ossigenato. Se se ne esce, si ricomincia tutto da capo, anche a parlare. Noi, comunque, nella sfortuna siamo stati fortunati perché siamo stati tra i primi ad ammalarci a Milano, quando c’erano posti in terapia intensiva. Ora non ce ne sono più e penso che se questo virus arriva allo stesso modo anche in Sardegna o al Sud può fare una strage”.
E’ questo pensiero che le ha fatto trovare la forza per gridare a tutti: “State a casa”?
“Ho paura per la mia famiglia e i miei amici a Carbonia. Tanti lombardi sono andati lì, nelle case al mare, pensando di fuggire dal virus. Chi ha lasciato le zone rosse è stato un irresponsabile, deve saperlo. Se sono al collasso le strutture del Nord perché ci ammaliamo tutti insieme, non posso immaginare in Sardegna e al Sud cosa accadrebbe: pochi potrebbero davvero farcela. In troppi non hanno ancora preso coscienza; si può rinunciare a uscire per 15 giorni. Siamo tutti a rischio, per questo ho capito che in questa lotta contro il coronavirus anche io posso fare la mia parte e lo devo al mio compagno. L’unico mio conforto ora è la preghiera e questa consapevolezza di espormi per poter risparmiare altri da tanto dolore”.
Fonte: TGCOM24